Dino Villatico: riflessioni di un ascoltatore dis-attento
Qual è l’atteggiamento d’ascolto più giusto per entrare nel mondo della musica elettronica e capirne il funzionamento? Mi sento fare spesso, e da più parti, questa domanda. Non credo che ci sia una sola risposta. Anzi, non credo che sia possibile dare una risposta. Perché forse la domanda, detta così, è mal posta e peggio formulata. Si potrebbe infatti anche nello steso modo domandare quale sia l’atteggiamento più giusto per ascoltare le sinfonie di Beethoven o un mottetto di Palestrina. La prima risposta che verrebbe sulle labbra (ma non è detto che sia né quella giusta né quella vera) è che ci si sforzi di conoscere le forme del cosiddetto classicismo viennese e della polifonia rinascimentale, e forse allora si capirebbe la musica di Beethoven e di Palestrina. Ma – ahimè! – conosco fior di musicologi che non capiscono niente della musica! Superesperti di organa medievali che posti davanti a una zingara che canti una ninna nanna non sanno che pesci pigliare. Il fatto è che la conoscenza delle tecniche musicali è un presupposto utile, forse indispensabile, per capire la musica, ma non sufficiente. Tornando alla domanda iniziale, perché dovrebbe essere diverso il modo di ascoltare la musica elettronica da quello di ascoltare un Klavierstück di Stockhausen? Come se lo strumento condizionasse in maniera assoluta il pensiero musicale (in maniera relativa, vale a dire in relazione alle caratteristiche dello strumento, certo che lo condiziona). La musica elettronica, per esempio, non esclude affatto il contrappunto: anzi, spesso l’aspetto più debole delle composizioni elettroniche di chi abbia maggiore dimestichezza con l’elettronica che con la tradizione musicale sta proprio in una certa ingenuità della costruzione dal punto di vista strettamente musicale. Sembra che proprio questa sia invece stata l’esigenza di chi ha compilato questo disco: togliere l’equivoco e far sentire non solo la continuità, ma la necessità di una continuità nel percorso dalla voce allo strumento e al suono elettronico. Ma allora proprio qui cominciano i problemi (e non c’è nulla d’interessante nel mondo della musica, che non cominci ponendo problemi: uno degli attacchi più problematici di tutta la musica europea è quello dell’Eroica di Beethoven, due accordi che fanno pensare a un ritmo binario, e poi si ascolta subito il tema che ha invece scansione ternaria). Perché chi lavora con la voce o con gli strumenti è abituato a lavorare in un campo già limitato e quasi sempre predeterminato di suoni, scale, modi, temperamenti, sistemi seriali e no. Il suono elettronico, sia quello che risulta dalla registrazione di suoni del mondo naturale e umano, che quello prodotto elettronicamente, offre un ventaglio praticamente illimitato di possibilità sonore. Ma ciascuno sa che un’opera deve lavorare invece dentro un campo limitato, pena se no il rischio del caos o dell’ammutolimento per sovraesposizione sonora. Ora, caratteristica comune di tutti e sette i brani del cd è l’avvio di un immediato confronto tra il suono elettronico e la registrazione della voce umana. Vediamo in che modo.
Andrea Nicoli: in Distrazione (frammenti 1) c’è un percorso che sembra individuare una storia. Le voci emergono da un magma elettronico, sorta di fascia che funziona quasi da pedale: l’intervento della voce, e del linguaggio (si percepiscono solo alcune parole: sconosciuto, intossicato, il cielo) introducono il ritmo. L’emissione insistita di suoni consonantici, soprattutto di gruppi consonantiti particolari come tr, scandisce battiti, periodi ritmici, che acquistano il senso di una vita che irrompe. E non si dimentichi che in alcune lingue, per esempio nel sanscrito e nelle lingue slave, la r è una semivocale, tiene il suono, e può sostenere un accento tonico. Il percorso sembra toccare un’acme e diminuire, affievolirsi, per concludersi in un battito ostinato, percussivo, sempre più fievole. L’effetto complessivo è piuttosto drammatico. In Gli echi chiamano invece è lo strumento a balzare subito in primo piano. Una corda pizzicata, più corde pizzicate, fanno pensare a una chitarra amplificata. Il suono strumentale resta, per tutto il pezzo, come una sorta di limite contro cui si scontra la voce. Una voce soprattutto parlata. Nel contrasto, anche per l’enfasi delle cose dette (ho camminato coraggiosamente per le vie di Sarajevo), l’orecchio impara a distinguere diversi piani sonori, ciascuno variegato da un ritmo, e anche il suono continuo, la fascia, acquista di fatti una certa periodicità metrica di arsi e di tesi. Il linguaggio che si fa musica o la musica che si fa linguaggio? O un incontrarsi di entrambi a mezza strada e mescolarsi? In fondo anche il linguaggio è soprattutto suono.
Matteo Pittino: Singin’ in T (a parte l’ammiccante allusione, nel titolo, a una canzone famosa) attacca subito con una fascia elettronica: un suono complesso che procede come un flusso inarrestabile, s’ingrossa e s’assottiglia. Raffiche acute o staffilate aguzze, quasi fulmini sonori, la sferzano improvvisamente, ma acquistano ben presto la ricorrenza periodica di un intervento ritmico. Il pezzo ha un carattere fortemente drammatico. Le voci tagliano la fascia sonora come una presenza nuova, a poco a poco più imponente e voluminosa, un vero e proprio coro virile. I due volumi, quello elettronico e quello umano si contrappongono senza confondersi, ma non in un vero e proprio contrasto. Scrivesse per orchestra Pittino scriverebbe per settori timbrici omogenei contrapposti, archi contro ottoni, legni contro percussioni. Ecco rinascere il contrappunto, anche nella musica elettronica.
Michelangelo Lupone: una petitio cordi il titolo? Canto di madre chiede partecipazione emotiva. E perché no? Anzi, spesso la musica elettronica esige, più della musica strumentale, coinvolgimenti sentimentali, fantasie visionarie. L’allucinazione sembra il suo terreno più congeniale. Ma l’elaborazione musicale è fittissima. E’ un pezzo quasi didascalicamente contrappuntistico. Detto come un elogio. Le voci, o piuttosto le linee sonore entrano in combinazione con estrema chiarezza, distinguendosi le une dalle altre. E questo è il contrappunto. All’inizio sono linee singole, sottili, tratteggiate da battiti, interrotte da pause, linee che si allungano e si accorciano nel tempo, inventandosi così un complicato, ma organizzatissimo, artificialissimo (è un elogio, anche qui) spazio ritmico. Poi a poco a poco le linee si fanno fasce e il contrappunto s’infittisce. Finita d’ammirare la bravura contrappuntistica del compositore ci si lasci poi coinvolgere fino in fondo (all’ebbrezza?) dalla ricchezza di sollecitazione sonore.
Riccardo Vaglini: l’attacco di Voci di scomparsa può sorprendere per l’immediatezza della vocazione sentimentale: la voce nuda che parla. Ma che cos’è lo scomparire se non la perdita di un ascolto? Il dolore, l’angoscia di una perdita stanno proprio nel ricordo di ciò di cui non si può più avere esperienza. E allora, eccola là, nuda, impotente, fragilissima e renitente alla scomparsa, la voce che si vorrebbe eterna, ma che è invece mortale come tutte le voci. Si gioca difficile, un corpo a corpo con se stessi. L’enfasi del testo chiede un aut aut: l’attimo in cui ti credi perenne scomparirà, o mi accogli o sei silenzio. L’elaborazione elettronica interviene ad assorbire, amalgamare l’indecente, l’inaccettabile, l’irredimibile. E’ il caso di rammentare Eliot? Time present and time past/Are both perhaps present in time future,/And time future contained in time past./If all time is eternally present/All time is unredeemable. E c’è una struggente tenerezza nel lasciarsi affondare nel mare dei suoni: un leopardiano disincanto, che accarezza i suoni come ultima traccia del ricordo. Che importa se poi l’essere è il nulla?
Riccardo Dapelo: quasi un concerto per voci solisitiche e suoni elettronici
Zu kluge gestirnen. Ma comincia con l’irruzione dei suoni elettronici, come lo strepito di un’orchestra. Due fasce sonore si contrappongono, una un continuum, l’altra spezzata da sussulti ritmici. Nel combinarsi delle due voci d’insieme, le due voci solistiche, umane, cominciano il gioco delle imitazioni e dei cotrasti. Tutto qui. Vi sembra poco? La musica si gioca la pelle da quasi un millennio su queste imitazioni e su questi contrasti. Adesso ci si mette anche l’elettronica. Vediamo che succede. Sembra interessante come quello che c’era prima.
Silvia Lanzalone: Dis-trazioni fa pensare a una fiaba di Andersen, la stessa che Stravinskij ha trasformato in opera, L’usignolo. Non so se nella composizione il rinvio ad Andersen sia alluso. Ma non è importante. L’opera vive dell’andata e ritorno tra compositore e ascoltatore. Ciascuno ci mette qualcosa. Anche di se stesso. All’inizio si ascoltano crepitii sonori apparentemente caotici. Ma colpisce che i piani d’intervento delle diverse linee sonore (fosse musica strumentale si direbbe le melodie) restino distinte e il combinarsi si presenti come un intrecciarsi di voci in un mottetto polifonico rinascimentale. Si distinguono soprattutto due linee: una continua, come un pedale acuto, l’altra punteggiata da battiti, interruzioni, respiri. E’ una partitura vivace, quasi un cinguettio di uccelli elettronici. Che, a differenza della fiaba di Andersen, hanno la meglio sugli usignoli naturali. Ma ce ne sono ancora? Lo strepito finale instilla molti dubbi in proposito. Senza rimpianti per la Natura. Con buona pace dei troppi Rousseau redivivi.
Vademecum per l’ascoltatore: fare il buio assoluto nella stanza. Sprofondare in una comoda poltrona o, meglio, abbandonarsi sdraiati su un letto. Lasciare che la musica entri nel corpo. E poi vediamo se la mente non ne sia stata toccata, o qualcosa di più.
Roma, martedì 7 maggio 2002