(..) Io penso che la musica di De Rossi Re abbia radici appunto nella sua passione per tante musiche diverse e nella sua capacità di renderle compatibili e di farle suonare insieme. Ma c’entra anche un altro aspetto. Che è la simpatia o, se vogliamo, la sintonia per i potenziali ascoltatori per i quali la sua musica è pensata. Io non so se questi ascoltatori oggi esistano e quanti siano, ma so che la sua musica li cerca, e son convinto che a volte ricerche di questo tipo servono proprio a crearli, a farli esistere di fatto. Che cosa vuol dire allora la sua musica ai potenziali ascoltatori? Direi che anzitutto li vuol persuadere che anche oggi può esistere un ascolto non banale, ma gratificante. Il piacere dell’ascolto nella musica da concerto degli ultimi cinquanta o sessant’anni poteva esistere, ma veniva conquistato a due condizioni: anzitutto che chi ascoltava avesse l’orecchio abituato all’assenza di consonanze, di regolarità ritmiche e di punti di conclusione nello scorrere del tempo. Solo chi si fosse fatto l’orecchio a queste “assenze” e non cercasse di trovare ciò che appunto non c’era, poteva arrivare a godere di questo tipo d’ascolto. In secondo luogo chi ascoltava (e chi ascolta anche oggi) doveva condividere il messaggio di disagio che queste musiche tendevano a comunicare e che simbolicamente alludeva al disagio di vivere. Queste due condizioni tendono a filtrare l’ascolto con meccanismi di pensiero che lo distanziano dal piacere immediato dell’incontro col suono. Chi compone musica può compiacersi di questi filtri, ma chi l’ascolta fa più fatica ad adottarli. E anche chi la esegue non mette filtri: suona cercando di persuadere e di trascinare. De Rossi Re, da musicista appassionato – che sa bene quante corde sappia sollecitare la musica di ogni repertorio nella mente e perfino nel corpo di chi la ama – e direi anche da musicista esecutore che ha conservato, quando compone, il gusto e la forza dell’impatto del suono, si dedica appunto a cercare queste strade e queste intese con i propri potenziali ascoltatori. C’è qualcosa di male?
Il segreto della qualità culturale di tutta l’operazione sta nella sapienza tecnica della scrittura. In alcune opere, soprattutto, anche se non solo, dell’esordio, egli dimostra di saper trattare l’orchestra con una sottigliezza che ha imparato certamente a scuola, ma che ha studiato anche negli esempi dei grandi del Novecento, da Ravel a Stravinskij, da Petrassi a Bartók a Ligeti. E anche quando non dispiega esplicitamente queste competenze, anche quando lavora su tavolozze più semplici, la presenza di questo raffinato gusto timbrico ha sempre spazio. Un altro aspetto importante è la forma dei brani. La successione degli episodi che li compongono si basa su due principi presenti da sempre in tutte le musiche del mondo (anche se volontariamente assenti in quelle “dure” dei decenni passati): la ripetizione percepibile di frammenti più o meno lunghi, e l’introduzione di varianti. Questi principi formali hanno un vantaggio: l’ascoltatore ha il piacere di riconoscere e valorizzare ciò che ha già sentito, e si aspetta che ricompaia qualche cosa di noto. Ma infine il gioco principale è quello di proporre pattern riconoscibili e poi di introdurvi modifiche che inducono sorpresa. Introdurre modifiche e proporre sorprese (un accordo strano, un ritmo inusitato o un timbro inconsueto), è relativamente facile: ciò che è difficile è che questi gesti riescano a tener desta l’attenzione e facciano sì che l’ascoltatore provi piacere nell’ascolto e desideri prolungare il gioco. È su questo punto che si misura la creatività musicale di chi compone. Io devo dire che durante l’ascolto di molte musiche di De Rossi Re ho provato proprio questo: il desiderio che continuassero.
Credo anche che al di sotto di queste pratiche compositive si possa scorgere un invito a saper vivere. Penso che gli atteggiamenti di negazione radicale del mondo in cui viviamo, abbiano ormai concluso la loro epoca e possano lasciare il campo a qualche aspetto di fiducia nei nostri simili. Ciò non significa immaginare che viviamo in un bel mondo, che siamo tutti felici e che ci amiamo: significa che possiamo costruire insieme qualche cosa di diverso. Ma per costruire insieme dobbiamo prima di tutto intenderci.
Così queste musiche non si esimono dal raffigurare immagini dolenti, o grottesche o ironiche o amare, e neppure si esimono dall’essere qualche volta sorridenti. Insomma, vivono la vita di tutti i giorni, ce la raccontano e ci invitano a condividerla e a modificarla. Un ultimo tratto di civiltà delle composizioni di De Rossi Re è che intendono parlare a tanti: possono stringere l’occhio ai musicisti d’orecchio fino, ma possono anche rendersi ascoltabili a chi possiede solo l’orecchio medio del non specialista. Questo certamente è un azzardo, e può far storcere il naso ad alcuni critici musicali, magari a quelli che “fanno opinione”. Il problema più difficile è quello di trovare l’equilibrio giusto: anche a me è capitato qualche volta di pensare che qualche suo pezzo non corrispondesse ai miei gusti. Io però sono anche convinto che saper parlare del quotidiano, e saper parlare a tanti, è assai più importante per i destini della musica che non cercare quelle proposte mirabili e profetiche che un tempo erano apprezzate e valorizzate. Ma quelle appartenevano a un mondo in cui la società era dominata da strati sociali intellettualmente privilegiati, e non al mondo “democratico” di oggi, in cui la cultura dominante è assai più varia, contraddittoria e trasversale. So che molti compositori e critici non la pensano così, ma io vorrei proporre loro un gioco: quello di immaginare con una certa verosimiglianza quali saranno le tendenze artistiche dei prossimi anni.
Mario Baroni